Le pareti della stanza dove lavoro hanno il dono della parola. Non emettono suono ma lo stesso riescono a dire. Lo fanno tramite le foto che stanno appese e che raccontano di incontri, esperienze, date importanti da ricordare. In una di queste foto sono accanto a Rinaldo Geleng, il grande pittore scomparso nel 2003.
Era da parecchio tempo che non pensavo a quel viaggio a Roma, a quella visita in via Margutta nello studio del celebre pittore, al suo carattere un po’ burbero ma anche tanto disponibile.
Rinaldo Geleng è stato quasi una leggenda. Era famoso in tutto il mondo, un artista di straordinario talento, un grande poeta del colore. La sua arte incantava e sorprendeva intenditori e critici. I suoi dipinti a olio, nudi, paesaggi, nature morte, realizzati con pennellate che sembrano fendenti, palesano un controllo pressoché assoluto della materia, e riescono a fissare per sempre sulla tela attimi e raffinatezze di incomparabile essenzialità. Geleng era noto per essere il ritrattista dei VIP. Le più celebri personalità del mondo dello spettacolo, i capi di stato, i politici: tutti sono finiti sotto la punta del suo pennello. Ad esempio l’avvocato Agnelli, Berlusconi, Sophia Loren, Claudia Cardinale, Pavarotti, Clark Gable, Carla Fracci, papa Woityla. Non solo, ma Geleng era anche famoso per avere collaborato a molti dei film di Fellini del quale era amico fraterno.
Proprio per ricordare Fellini ero andato nello studio di Geleng e lui mi aveva parlato della loro amicizia in modo appassionato. Ne era scaturita un’intervista pubblicata poi sul settimanale CHI, una sorta di ritratto che stavolta il pittore aveva fatto di se stesso usando le parole al posto dei colori e dei pennelli.
<<Fellini aveva deciso di smettere con il cinema e voleva fare il pittore come me>> mi aveva detto Geleng. <<L’ictus da cui Federico era stato colpito il 3 agosto 1993, gli aveva parzialmente paralizzato il corpo e nonostante la riabilitazione, non si reggeva bene in piedi. Per questo aveva deciso di chiudere con il cinema e desiderava invece dedicarsi all’altra sua grande passione, la pittura. Aveva una certa dimestichezza con il disegno, ma voleva affrontare la pittura seriamente. Per questo aveva affittato un grande studio proprio sotto il mio. “Voglio lavorare vicino a te così puoi darmi consigli e suggerimenti”, mi diceva. Era venuto a vedere lo studio già allestito la domenica mattina 17 ottobre. Era felice. Ma purtroppo, quel pomeriggio fu colpito da un nuovo ictus, rimase in coma fino al 31 ottobre e quella notte morì>>.
Quando lo conobbi, nel 2001, Geleng aveva 81 anni ma ne dimostrava almeno dieci di meno. Energico, vitale, parlava con enfasi ricordando particolari vecchi anche di cinquant’anni. Durante la nostra chiacchierata non restò mai fermo. Si divideva tra la grande poltrona accanto al calorifero, ai cavalletti dove sostavano i quadri ancora da finire. Ovunque nella stanza tele, pennelli, tubetti di colore, libri, fogli, matite, disegni, ritratti, cornici vuoti, statue.
<<Fellini aveva grandi doti per fare il pittore, ma non aveva mai avuto tempo per esercitarsi>>, mi disse ancora mentre portava dei ritocchi ad un dipinto. <<Quando doveva prendere appunti, ricorreva ai disegni, agli schizzi. Ha riempito in questo modo migliaia e migliaia di fogli che hanno ora un grande valore. Dal 1960 alla morte, aveva preso l’abitudine di raccontare i suoi sogni con disegni e appunti. E quei disegni, che lui stesso aveva raccolto in diversi volumi, chiamandoli “Il grande libro dei sogni”, sono un vero capolavoro>>.
Alle pareti dello studio, Geleng teneva tanti ricordi della sua amicizia con il mitico regista. Potevo vedere vecchie fotografie che lo ritraevano con Fellini quando insieme facevano la fame a Roma sognando di diventare famosi. <<Questa è la foto delle mie nozze>>, mi disse il pittore indicando un’immagine ormai sbiadita. <<Sei giugno 1943. Federico è lì, accanto a me, mio testimone di nozze. Lui si sposò cinque mesi dopo, il 30 ottobre, e io fui suo testimone di nozze, mentre per sua moglie, Giulietta Masina, c’era Vittorio Caprioli
<<La nostra è stata una grande amicizia. In tutte le liete occasioni voleva che festeggiassimo insieme. Quando era tornato a Roma, all’inizio di ottobre, dopo aver terminato la riabilitazione a Ferrara, desiderava tornare a casa sua. Ma, poiché, per sposarsi, doveva servirsi della carrozzella, fu necessario fare delle modifiche alle porte dell’appartamento. Così venne ricoverato al Policlinico. Questo contrattempo lo amareggiò molto. Me lo disse e mi chiese di stargli vicino. Soprattutto di notte. Trascorsi con lui le ultime sette notti che visse su questa terra “cosciente”, e sono ricordi indimenticabili. Federico era perfettamente cosciente. In quelle notti amava soprattutto ricordare il passato, gli anni quando eravamo a Roma, facevamo la fame sognando di diventare qualcuno.
<<Ci eravamo conosciuto nel 1939. Io disegnavo, portavo i miei lavori a vari giornali, ma che non pagavano mai. Un giorno pensai di andare al "Marc'Aurelio", un giornale umoristico, con delle vignette. Il portiere dello stabile mi disse che il caporedattore sarebbe arrivato alle 14. Era mezzogiorno e decisi di aspettare in strada. Passeggiavo pieno di pensieri e mi fermai davanti a una rosticceria, guardando con l’acquolina i magnifici supplì, che però on potevo permettermi. Ad un certo momento vidi un’ombra dietro di me e sentii una voce che disse: “Quanto hai in tasca?”. Senza girarmi risposi: “Quattro lire”. “E io ne ho due”, disse la voce. “Il piatto costa sei lire, andiamo e dividiamo”. Ci guardammo in faccia. Entrammo ordinando un piatto.
<<A quel tempo portavo i capelli lunghi. Quell’uomo mi chiese perciò se ero un poeta. Risposi che facevo il pittore e vedendo che anche lui era un “cappellone” gli chiesi a mia volta: “Anche tu sei un pittore?” “No. Sono un poeta”, mi disse.
<<Quell’uomo era Federico Fellini. Da alcune settimane si era trasferito a Roma con la madre e la sorella, e quella mattina stava andando anche lui al “Marc’Aurelio” in cerca di collaborazioni. Diventammo amici e lo restammo per sempre.
<<Quel pomeriggio andammo insieme alla rivista. Il caporedattore era Stefano Vanzina, in arte Steno, quello che poi sarebbe diventato regista di tanti film. Ci prese in simpatia e così noi riuscivamo a guadagnare qualcosa. In seguito, facemmo amicizia con altri artisti, in particolare con Alberto Sordi. Alberto lavorava già nell’avanspettacolo, guadagnava dei bei soldini e poteva permettersi di mangiare nei grandi ristoranti. Noi invece andavano in una trattoria ma era proprio di fronte al ristorante dove pranzava Sordi. Andavamo sempre in quel posto per un motivo ben preciso. Con le nostre povere finanze, potevamo permetterci solo una pastasciutta. Ma Sordi, che era il “bello” della compagnia ed era anche famoso ormai, aveva fatto innamorare la cuoca della trattoria. Questa, per fargli un favore, ci faceva sempre trovare una bistecca nascosta sotto la pastasciutta. Ricordo che, passato qualche mese, Sordi ci disse: “Ao’, ragazzi, datevi da fare un poco anche voi. Quella cuoca è brutta come la fame e io non ce la faccio più.
<<Fellini ricordava questi fatti con grande tenerezza. Aveva il culto per l’amicizia vera, quella nata al di fuori degli interessi e delle convenienze. Per dirti quanto grande fosse la sua amicizia ti racconto questo episodio>>, mi disse Geleng quasi commuovendosi. <<Quando gli venne conferito il quinto Oscar, quello alla carriera nel 1993, mi chiese di accompagnarlo a Hollywood. Dovevamo andare io lui e le nostre mogli. Ma poi sopravvennero difficoltà fisiche. Federico aveva dolori fortissimi e i medici gli proibirono quel viaggio. Gli organizzatori dell’Oscar si arrabbiarono molto e non fu facile convincerli che le difficoltà fisiche di Fellini erano autentiche. Alla fine se ne convinsero e accettarono la situazione. Una sera, mentre io e mia moglie eravamo al ristorante con lui e Giulietta Masina, Federico ci comunicò la nuova decisione, cioè quella che non si andava più ad Hollywood. “Peccato”, disse mia moglie. “Mi avevano detto che per quella manifestazione bisognava avere l’abito da sera bianco o nero e io me lo ero fatto preparare bianco. Pazienza”. Federico la guardò sorridendo e disse: “E allora andiamo”. Così, all’improvviso, aveva deciso che i suoi guai non avevano importanza di fronte alla delusione di mia moglie. Facemmo le valige e partimmo per Hollywood>>.
Roberto Allegri